HomeDREAMIl Corriere della Sera (Italia) – Malawi, la sfida dell’ospedale italiano
06
Mag
2006
06 - Mag - 2006



Viaggio in un angolo d’Africa devastato da fame e malattie. Dove ha preso avvio un piano a lungo termine: quattro organizzazioni umanitarie insieme con i fondi di Banca Intesa e Fondazione Cariplo

Malawi, la sfida dell’ospedale italiano

DAL NOSTRO INVIATO
LILONGWE (Malawi) – Dodici anni, dodici chili. Questa era Molly. All’ospedale Mtenga Wa Tenga l’ha portata la zia. Era andata al villaggio per il funerale della sorella. Nella capanna, per terra, ha trovato Molly. Quando pronuncia il suo nome, sull’auto che percorre la pista rossa verso il villaggio di Mpote, a Roberto Lunghi fisioterapista di Roma e volontario della Comunità di Sant’Egidio viene la pelle d’oca. Si vede, è lì, sul braccio. Molly è morta due mesi fa. Fame e Aids. Non ha vissuto abbastanza per le pannocchie di marzo. «Finalmente un buon raccolto», sorride il capo villaggio, maglietta della festa (bucata) e piedi nudi. Nshima assicurata (per un po’) ai 300 abitanti (40 sieropositivi). Una polentina di mais, bianca, insapore. Piatto unico. Quando Nelson Mandela incontra un bambino gli chiede «cos’hai mangiato stamattina?». A Mpote, come dovunque in questo spicchio di affamata Africa, otterrebbe la stessa risposta, nei giorni felici: nshima . Qualche volta, prelibatezza una tantum anche in città, cavallette raccolte di notte e poi seccate al sole. A Molly come a migliaia di altri è andata male. La siccità, l’Aids che le ha passato la madre. Dodici anni, dodici chili. Questa era Molly, questo è il Malawi. Dodici milioni di abitanti, un milione di orfani, un neonato su 4 che non vive più di una settimana, 900 mila tra sieropositivi e malati di Aids, speranza di vita 37 anni, mezzo euro al giorno di reddito. Medio. «Il cuore caloroso dell’Africa» c’è scritto sulle magliette. Turisti pochi. Eppure il Malawi ha cose uniche: il lago grandioso che gli dà il nome, i parchi, la mitezza della gente, persino una casa a forma di pallone da football a quattro piani (l’ha fatta e ci abita un architetto olandese) che si oltrepassa alla periferia di Blantyre andando verso la boscaglia, dove gli attivisti di «Save the children» e di Magga (gli Scout locali) fanno educazione sanitaria nei villaggi. Un’altra rarità nazionale? Il pediatra. Negli ospedali pubblici c’è un solo pediatra locale. Dev’essere una donna molto occupata. Fino all’anno scorso ce n’erano due. Ora il secondo è passato nel settore privato. A pagamento. E’ di una clinica privata, tanto per dire, anche l’unica macchina per la Tac. I medici malawiani sono in tutto 200. Mentre al maggior ospedale pubblico di Blantyre, la capitale economica, il governo ha avviato un programma per la cura dell’Aids con farmaci antiretrovirali, le medicine dei Paesi ricchi. Ne parla Jeffrey Sachs nel primo capitolo del suo «La fine della povertà». Il costo della terapia al Queen Elizabeth: un dollaro al giorno. Uno. Ma in Malawi anche un dollaro è roba da ricchi. La maggioranza dei malati va a morire nell’altro reparto, tre pazienti per letto, sdraiati nei corridoi. Il responsabile è lo stesso che cura i solventi. Lui sa, scrive Sachs, che «tutti potrebbero alzarsi dal loro letto di morte: basterebbe un dollaro al giorno».
Bisognerebbe tenere Molly nella coda degli occhi, bisognerebbe pensare all’inferno/paradiso del Queen Elizabeth per comprendere tutto lo stupore che produce il nuovo ospedale degli italiani. Sta all’ombra di un gigantesco mogano, a Blantyre. Un anno fa q

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