HomeDREAMIl Sole 24 ore (Italia) – C’è un villaggio in Africa che ha vinto l’AIDS
06
Mag
2006
06 - Mag - 2006



 

LILONGWE:  Enita quel giorno non si era presentata all’appuntamento. Da quando aveva cominciato la terapia con i farmaci antiretrovirali era la prima volta che accadeva. Strano. Perché era stata lei a chiedere di essere curata. Di nascosto. Senza dire nulla al marito né ai suoi due vecchi. Le avevano spiegato che con le medicine avrebbe potuto vivere, nonostante l’Aids. E dare un futuro al figlio che portava in grembo. In Occidente, ormai da una decina d’anni, non si muore quasi più di Aids. E diventato una malattia cronica, come il diabete. Diversa la storia in Africa. Scoprire di essere sieropositivi nelle zone più remote del continente, quelle senza strade e senza luce, lontane da tutto, dove non arrivano nemmeno le statistiche, significa essere condannati a morte. Per la scarsa disponibilità dei farmaci salvavita: 1’85% dei sieropositivi africani – quelli ufficiali, che sono la punta di un iceberg – non ha alcuna possibilità di accedere alle cure. Ma non solo. Quei pochi che riescono a ottenere le medicine hanno enormi difficoltà a porta-re avanti la terapia per l’impossibilità di effettuare regolarmente gli esami del sangue. I controlli della carica virale indispensabili per dosare il cocktail dei farmaci e domare la malattia. Enita il 15 gennaio, a due settimane dal parto, ha cominciato a curarsi gratuitamente nel Centro Dream di Mthengo Wa Ntenga (che significa albero della vita, in chichewa) attivo da pochi mesi, a pochi chilometri dalla capitale malawiana Lilongwe. Suo figlio Zuzeni è nato il 30 gennaio. Un maschio di 3 chili e due, sano. La prevenzione con la nevirapina, per fermare il passaggio del virus dalla madre al figlio, aveva funzionato. Nei giorni successivi al parto, la donna si è presentata alle visite di controllo, ha seguito le indicazioni dei medici, ha preso regolarmente i farmaci che le hanno permesso di allattare il figlio senza trasmettergli la malattia. Fino alla strana assenza di quel giorno di fine febbraio. I volontari del Centro Dream (Drug resource enhancement against Aids and malnutrition) creato dalla Comunità di Sant’Egidio – tutti africani, siero-positivi o in Aids conclamato ma in cura, che a loro volta han-no deciso di dedicare parte del loro tempo per spiegare alla gente che c’è una via d’uscita, che si può non morire di Aids – decido-no di andare a cercare Enita. La strada per arrivare al suo villaggio è una lunga striscia di terra battuta. Tra la polvere rossa che ti entra nelle ossa, la luce abbagliante e la savana sterminata. A ‘Mptote, 300 abitanti, case di fango e mattoni, campi di mais e alberi di eucalipto, i volontari scoprono che Enita è morta. «Aveva mal di stomaco e vomitava sangue», racconta la madre Zana Mataka, che dalla vita ha avuto 8 figli (2 già morti di Aids) e 8 nipoti (3 morti di Aids). La loro capanna era troppo lontana dal primo ospedale. «Enita era serena – ricorda il padre, Be As Mataka – perché diceva che qualcuno si era preso cura di lei e aveva aiutato suo figlio a nascere sano». Prima di lei tanta è gente è morta nel villaggio, ma non si sapeva per-ché. O si fingeva di non saperlo. Ci si scontra con problemi culturali, comportamenti tradizionali e false credenze. Nelle zone rurali più isolate si crede ancora che l’Aids sia un’invenzione dei bianchi per non far fare figli agli africani, che per sconfiggere il male sia sufficiente accoppiarsi una giovane vergine che purifichi il sangue dal virus Hiv. L’Aids è la principale causa morte del Malawi. L’aspettativa di vita media &eg

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