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La telemedicina nelle Case Circondariali
09
Ott
2013
09 - Ott - 2013



Pubblicato su Il Sole 24 ore il 14 ottobre 2013

Con la legge 230/99 e il successivo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° aprile 2008 il servizio sanitario carcerario è divenuto di competenza del Sistema Sanitario Nazionale e non più, com’era in precedenza, dipendente esclusivamente del Ministero di Giustizia.

La differenza è sostanziale: se prima della riforma il responsabile della sanità in un istituto di reclusione era il direttore del carcere, ora assume tale onere il direttore della Asl di competenza e tutti gli operatori sanitari rispondono soltanto a lui come un qualunque altro presidio sanitario territoriale.

Ovviamente tale cambiamento ha imposto ai Sistemi Sanitari Regionali di ripensare l’organizzazione dei propri servizi. Garantire dei buoni livelli sanitari in carcere non è solo un modo per salvaguardare la salute dei detenuti ma è anche un modo concreto per preservare la salute del territorio. Nelle 206 carceri italiane si calcola che il 36% dei detenuti sono stranieri e la diffusione di malattie in Italia più rare devono essere prese in considerazione. Il carcere, paradossalmente, potrebbe anche essere il luogo dove poter curare, approfittando della “degenza prolungata”, alcune patologie croniche che se non curate o trascurate avranno elevati costi sociali. Se, ad esempio, in carcere la tubercolosi non è diagnosticata e curata, oltre ad essere un veicolo di infezione durante la detenzione lo sarà anche un domani per la collettività. Analogamente, se l’AIDS non viene monitorizzato e trattato il paziente potrà essere più facilmente un veicolo di trasmissione dell’HIV sia all’interno che all’esterno del carcere. E’ ormai noto, infatti, che un paziente affetto da AIDS se correttamente curato avrà una quantità di virus nel sangue così bassa da azzerare quasi completamente la sua infettività in caso di comportamento a rischio.

Insomma, garantire un miglior sistema sanitario carcerario non è solo un dovere morale ma è un modo per preservare e garantire anche una miglior qualità di salute nel territorio.

Ovviamente alla base delle precarie condizioni sanitarie c’è l’affollamento delle carceri che riverbera sicuramente in problemi di tipo sanitario, ma la nostra riflessione si vuole soffermare solo sulle potenzialità che i servizi di telemedicina possono offrire alle Case Circondariali.

Poter fare, per patologie selezionate, diagnosi a distanza, avere una “second opinion”, può evitare trasferimenti incongrui con un notevole risparmio per la collettività: si stima che i soli costi di trasferimento di un detenuto in ospedale si aggirano intorno ai 2.200 Euro.

In Italia ci sono stati timidi tentativi di progetti di telemedicina nelle carceri ma il sistema è ancora ben lontano da un’entrata a regime.

Nell’ottobre 2011 è stato inaugurato il primo servizio di teleconsulto cardiologico tra il carcere di Regina Coeli e l’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma, nei mesi successivi, sono stati eseguiti 84 teleconsulti ma poi, per la mancanza di finanziamenti il servizio, seppur potenzialmente funzionante, è attualmente fermo.

Analogo percorso, ma sulla teledermatologia, si è avuto nel carcere giudiziario dell’Isola d’Elba. Il servizio, inaugurato nel febbraio 2013, non ha ancora preso il via.

Fortunatamente ci sono anche alcuni servizi funzionanti con dati di attività significativi: al carcere “Opera” di Milano, dove la tecnologia è appaltata a provider privati, è attivo un servizio di teleconsulto cardiologico; analoga esperienza è operativa al carcere di Bergamo che dal 2010 invia circa 400 elettrocardiogrammi all’anno all’ospedale Giovanni XXIII. 

Ma un sistema a regime, rodato e collaudato di teleconsulto cardiologico si ha solo in Puglia dove il servizio, diffuso dal 2010 in ben 12 case circondariali, è operativo H24 ed ha al suo attivo circa oltre 700 telereferti all’anno. Di questi solo il 4% ha richiesto il trasferimento in ambiente ospedaliero permettendo un risparmio alla collettività di centinaia di migliaia di euro.

Ci chiediamo: non c’è forse la necessità di mettere a regime questi servizi anche per dare un concreto sostegno ai sanitari che si trovano ad operare, spesso in condizioni di estrema difficoltà, nella Case Circondariali?

La cardiologia è senz’altro la specialità medica che più di altre si presta a servizi di telemedicina ma sempre più la medicina elettronica si potrebbe espandere ad altre branche mediche.

Il programma DREAM della comunità di sant’Egidio, ad esempio, monitorizza attivamente, in tempo reale, la condizione clinica di oltre 200.000 pazienti HIV+ in decine di centri sanitari africani. Un modello simile si potrebbe facilmente replicare nelle carceri italiane dove si stima che i tassi di prevalenza siano simili a quelli incontrati in alcune zone dell’Africa Sub-sahariana. 

Nel tracciare seppur velocemente un quadro dei servizi di telemedicina nelle carceri italiane si assiste, ancora una volta, ad una disomogeneità dell’utilizzo dell’e-Health e la mancanza di una regia centrale si fa sentire.

A tal proposito il Prof Gensini, Presidente della SIT, Società Italiana di Telemedicina clinica e sperimentale, ha dichiarato “Questo settore della telemedicina rappresenta un tipico esempio di situazione in cui la medicina clinica viene facilitata in modo assai tangibile dall’uso delle tecnologie di ICT, che consentono la realizzazione di azioni di supporto della salute dei carcerati altrimenti impossibili”.

Forse un ruolo in tal senso, lo potrebbe avere il Ministero della Salute, che dopo aver varato la riforma sanitaria carceraria potrebbe dare linee di indirizzo alle Regioni per sviluppare più servizi di telemedicina.

Sarebbe un passo in più per salvaguardare la salute di tutti.

 

Michelangelo Bartolo

Dirigente Responsabile UoS Telemedicina, A.O. S. Giovanni Addolorata

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