HomeDREAMLa Repubblica – Ultima fermata Maputo dove l’imprevisto non ha orari
19
Gen
2015
19 - Gen - 2015



Mondovisioni

di Gabriele Romagnoli

su La Repubblica del 18 gennaio 2015

 

mondovisioni1È UNA sera d’inverno e ci sono trenta gradi. Dentro questa scatola di lamiera anche di più: il tetto di eternit ondulato si arroventa durante il giorno e ora mettici le luci colorate e il sudore dei corpi che si agitano tra i tavoli, addosso alle pareti, dovunque la musica riesca a strisciare. La ragazza ha poco più di vent’anni e se la cava con l’italiano. Mimì, si presenta. Dice di aver fatto «vacanza in Italia ». Dove? «Malpensa». Sì, va bene, ma poi dove? Ripete: «Malpensa». Lo capisci in ritardo, quando ti ricordi dei tratturi lungo la strada principale, degli anfratti che passeggere appena salite indicano ai conducenti. Dice: «Vieni da me? Ho la musica. Stai bene». Succede ogni sera in qualunque bar d’Africa, intorno alla piscina del Millecolline di Kigali o al bancone dell’Empire a Lagos. Questa è Maputo, capitale del Mozambico, il Paese con due record in Africa: la più rapida crescita dell’economia e della diffusione dell’Aids. Vorresti arrenderti e seguire Mimì dovunque sia “da lei”: sulla spiaggia di fronte, nel retro della baracca. Starai bene. Poi, probabilmente, male. Magari ne morirai. 

Qui la notte non scende, cola: te la laverai via domattina. Il colonialismo ha cambiato faccia e abiti, un po’ come la mafia al Nord o nel Padrino parte I-II: ha rinunciato alla violenza e assunto forme legittime. A differenza dei portoghesi, i cinesi si son comprati spazi, anziché conquistarli: azionariati di maggioranza, condomini a pagoda e supermercati all’orientale. Che cosa impari, camminando sotto questo profilo di baracche e grattacieli, al fondo del grande imbroglio universale? Fondamentalmente due cose, in due luoghi diversi della città. Sembrano scollegate, ma non lo sono, le unisce quella circonferenza che è il ciclo della vita. La prima è alla stazione, costruita nientemeno che dallo studio Eiffel. La facciata è talmente spettacolare che nel film Blood Diamond la spacciano per quella di un hotel dove entra Leonardo Di Caprio. La porta girevole è la sola cosa attiva. Ci sono molti binari morti e un unico treno sopravvissuto: alle 4 e 13 del mattino, diretto verso una zona di miniere in disuso.

Tuttavia gli uffici sono pieni: c’è gente in divisa che va a e viene da una sala all’altra, ispezione rotaie, annota, discute. È un lavorìo surreale. Il capostazione è pronto a darne conto con un’affermazione: «L’imprevisto non ha orari». Detta a Chiasso, da un omino elvetico, parrebbe una banalità. Qui rimbomba nella cassa toracica di un nero imponente e gallonato, nell’atrio deserto e sembra il frutto di un sapere arcano. L’imprevisto non ha orari: alle 9 del mattino in una cioccolateria di Sydney entra un pazzo armato; a mezzogiorno nel cielo sopra New York l’elicottero che trasporta una famiglia di turisti intenta a fotografare la statua della libertà viene centrato da un piper privato diretto nel New Jersey; alle tre del pomeriggio in una clinica nel verde un dottore chiama il tuo nome per consegnarti l’esito di un esame e premette: »Si sieda». È capitato a quasi tutti: il cuore rallenta, il corpo si fa pesante, i prossimi dieci secondi saranno come il giro della pallina quando comincia a saltare sui numeri.

Matola è un sobborgo di Maputo. La clinica sorge in uno spiazzo nel verde, ha un grande giardino, muri colorati, disegni allegri e infantili alle pareti. Ci sono soltanto donne: personale e pazienti. Nel corridoio: una sala parto, camere per chi è alla vigilia e per chi ha appena procreato. In fondo, laboratori, stanze per i prelievi, ambulatori. Le donne in attesa vengono chiamate, una alla volta, ogni quarto d’ora. La dottoressa le guarda senza espressione, poi dice: «Si sieda». Ci sono cartelli all’imbarco dei traghetti: «Qui siamo tutti sieropositivi, fatti il test». La prima donna a rivelare la propria condizione si chiamava Ana Maria, aveva 41 e pesava 28 chili. Se non ti prostituivi, si credeva, non potevi ammalarti. Gli uomini diffondevano il virus. Le donne tacevano. Lei affrontò il male, la chiamarona “la gladiatora”. Rinacque, tornò a casa e fu scambiata per un fantasma. Combatté anche per le altre, parlò all’Onu. Aiutò questa casa voluta da Sant’Egidio per chi, come lei, era malato, ma voleva vivere e dare la vita.

La dottoressa sussurra il responso. La paziente, incinta, china il capo e domanda qualcosa. La risposta è un cenno del capo da su a giù e ritorno: sì, può tenerlo, potrete farcela. Qualche porta più in là ci sono bambini nati così, madri con il virus che lottano per due. Se li tengono stretti, non si sente un vagito.

riprodotto da: La Repubblica del 18 gennaio 2015

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