Un giorno di liberazione nella prigione di Coyah, in Guinea, grazie a “Je DREAM”
Domenica era un giorno molto atteso da 10 detenuti della piccola prigione di Coyah, un giorno di liberazione. Otto di loro avevano già scontato la loro pena da due mesi, ma l’impossibilità di pagare la multa per la detenzione li obbligava a rimanere, finché qualcuno non si ricordasse di loro; gli altri due avevano terminato la pena da solo una settimana, ma con lo stesso problema.
In Guinea la cifra da pagare per poter uscire a fine pena si aggira di solito tra i 100 e i 200mila franchi guineani (tra 12 e 24 euro): non è poco se si considera che il salario minimo guineano è di 400.000, ma impossibile da trovare per chi, in prigione da tempo, non ha risorse economiche ed ha perso i contatti con la famiglia.
La comunità di “Je DREAM”, che visita regolarmente i prigionieri ed è composta soprattutto di donne legate al Programma DREAM della Comunità di Sant’Egidio, conosce le date di fine pena, tiene i conti e cerca di raccogliere fondi per consentire – a chi è lontano dalla famiglia, o non ha famiglia o non ha potuto informare nessuno della sua detenzione – di pagare l’ammenda di uscita e tornare libero. E’ in questo modo che, domenica scorsa, dieci detenuti hanno potuto lasciare la prigione.
A Coyah, una prefettura limitrofa alla capitale, in pratica una delle periferie di Conakry, la prigione consiste in un unico ambiente per gli uomini di circa 15 metri x 6 di larghezza e una stanza adiacente per le donne. Attualmente i prigionieri sono in totale 144 (di cui 3 sono le donne, con un bambino3 anni ed uno di 2 mesi).
In questo spazio così ristretto il caldo e l’umidità, la promiscuità, la malnutrizione (è previsto un pasto al giorno a base di riso), rendono le condizioni di vita al limite della sopravvivenza. I prigionieri sono quasi nudi e trascorrono le giornate seduti a terra, una sola fila può appoggiarsi al muro con la schiena e stendere le gambe, gli altri verso il centro della stanza siedono come possono.
A turno si sta in piedi o seduti. Non c’è posto per prendere la posizione che si vuole se non concordando lo spazio con chi ti è accanto spalla a spalla. Non c’è cortile in questa prigione. La stagione delle piogge, ancora in corso, peggiora ulteriormente queste condizioni già così compromesse.
Con un fondo raccolto di 300 euro e in accordo con i militari di sorveglianza, la Comunità ha ottenuto di poter ripulire gli ambienti della prigione ridipingendo le mura con vernice lavabile bianca, che offre anche un po’ più di luce alle stanze che possono riceverla solo dalle feritoie poste in alto.
La raccolta continua per offrire a chi è detenuto stuoie per non essere a contatto con il cemento del pavimento, abiti e ciabatte, farmaci di base per chi sta male: un piccolo fondo rimasto dalle spese della pittura è la base di partenza per una nuova raccolta.
Un’attivista di DREAM, infermiera, e un amico medico si occuperanno nei prossimi giorni di chi sta più male (uno dei prigionieri ha un dito tagliato per il morso di un altro detenuto durante una lite) e per verificare le condizioni dei bambini e delle tre donne. Una di loro è incinta. I motivi della reclusione sono diversi “nous sommes tous prisonniers mais chacun a son histoire et nous avons pas les mêmes peines » raccontano. Sedici di loro sono stati posti in arresto per la partecipazione ad una manifestazione di protesta contro l’assenza di elettricità nel loro quartiere; una delle donne è trattenuta a causa di un attacco armato compiuto dal marito resosi irrintracciabile. L’altra, con un bimbo di due mesi, racconta del furto di una vettura operato dal fratello.
La piccola comunità di Je DREAM spesso non ha nulla da portare in prigione ma la visita da sola è preziosa, perché più ancora delle dure condizioni pesa sui prigionieri il sentimento di essere dimenticati.
La fedeltà della loro presenza, le visite periodiche e il rapporto instaurato con i sorveglianti hanno consentito un accordo per la pulizia e la ridipintura della prigione, accolta dai detenuti (ma anche dai sorveglianti) con grande riconoscenza. I prigionieri si sono accordati per scrivere una lettera indirizzata alla Comunità di Sant’Egidio, al Programma DREAM e a chi ha trovato i fondi, per ringraziare e per raccontare la speranza che ripongono in questa amicizia: iniziata ormai da alcuni anni rappresenta la possibilità di trovare vie sempre più efficaci per rendere più umana ed equa la giustizia.
Perché nessuno sia dimenticato.