HomeDREAMNon basta essere medici, è necessario essere umani. Intervista a Noorjehay Magid, donna impegnata con il programma DREAM in Mozambico
08
Mar
2016
08 - Mar - 2016



IMG_1356Pubblichiamo il testo integrale dell’intervista a Noorjehay Magid comparsa sul giornale mozambicano Noticias.

Noorjehay Magid, è medico, responsabile clinico del programma DREAM per la lotta all’HIV in Mozambico. Dietro al camice bianco c’è una donna di fede con una marcata vena umanitaria. Esercita la sua professione con l’idea che “non basta essere medici per curare i malati, è necessario avere sensibilità umana”. Come riconoscimento ha avuto due premi “Donna dell’anno” nel 2006 in Italia e il premio “Klaus-Hemmerler” in Germania proprio quest’anno per il suo lavoro umanitario nell’area dell’HIV/AIDS. Ha deciso di diventare medico a 10 anni di età, realizzando il desiderio di suo nonno, riferimento della sua vita.

Ci racconti la sua storia, è suo nonno ad averla influenzata nella scelta della sua professione, è vero?

Si, quando avevo 10 anni, mio nonno è stato ricoverato in quello che oggi è l’Ospedale Centrale di Maputo, a seguito di un accidente cerebrovascolare (ictus n.d.t). Lì è stato curato da una dottoressa chiamata Manuela Santos, ed è stato molto colpito, al punto che in una delle nostre visite ci ha chiamati tutti vicino a sé per dirci che aveva il desiderio che uno di noi nipoti diventasse medico per aiutare i bisognosi malati. Inoltre, qualcosa in più aveva colpito l’attenzione di mio nonno e aveva motivato la sua ammirazione: il fatto di essere curato da una donna, di aver visto una donna come medico.

Questo l’aveva colpito?

Nella tradizione indiana, in cui sono cresciuta, la donna ad una certa età deve cominciare a costruirsi una famiglia, è una tradizione molto rigida. In un certo senso quell’esperienza fece capire a mio nonno che le donne potevano anche avere altri compiti nella società.

Certe tradizioni hanno minacciato la sua formazione?

Hanno interferito. Io vengo da una famiglia molto religiosa e conservatrice; tanto che io ho solo il diploma della 4a classe e la laurea in medicina. All’epoca era così, le donne musulmane potevano studiare solo fino alla 4a e poi dovevano smettere per sposarsi. Anche il mio destino era questo ma con l’appoggio della mia famiglia e con la mia determinazione e la mia  fermezza ho potuto studiare. A differenza di oggi, all’epoca non c’erano molte donne musulmane nelle scuole.

Da dove ha preso tanta forza per andare controcorrente?

Da mia madre. Lei ha lottato contro tutto e contro tutti per farmi studiare e perché potessi diventare quella che sono oggi.

Lei ha vinto due premi: “Donna dell’anno” nel 2006 in Italia e il premio “Klaus-Hemmerler” in Germania proprio quest’anno per il suo lavoro umanitario nell’area dell’HIV/AIDS. Significa che il desiderio di suo nonno si è realizzato?

Si. Io non ci speravo. Se lui fosse ancora vivo sarebbe molto orgoglioso. Ma mi permetta di estendere il merito ai miei colleghi e ai pazienti di DREAM che, ciascuno a modo suo, lottano per la vita.

Ci sono ancora tabù e stigma intorno a questa malattia (l’HIV/AIDS)?

Per prima cosa, mi lasci dire che io sono stata la prima donna a lavorare con la Comunità di Sant’Egidio per introdurre il trattamento antiretrovirale nel paese nel 2001. Oggi il tabù e lo stigma si sono ridotti drasticamente. Prima era davvero terribile. Mi chiamavano di nascosto e mi sussurravano che nel reparto x, nel letto y c’era un paziente con HIV/AIDS che aveva bisogno di assistenza. Senza farmaci antiretrovirali nel Sistema sanitario nazionale io registravo fino a 5 decessi al giorno. Quando sono stati introdotti i farmaci antiretrovirali nel 2004 le cose hanno cominciato a prendere un’altra direzione. Oggi tutti fanno il test e possono cominciare il trattamento. Tuttavia, prima di tutto bisogna tener presente che trattare un sieropositivo non può ridursi alla sola somministrazione di farmaci, bisogna che il paziente trovi nel suo medico un essere umano che lo sappia ascoltare quando ne ha bisogno.

Cinque decessi al giorno? Doveva essere frustrante…

Senza dubbio. Mettevo in pratica tutto quello che avevo imparato all’università, ma nonostante ciò molti pazienti morivano.

Dottoressa, le donne continuano ad essere le più grandi vittime dell’HIV/AIDS nel paese?

Purtroppo si. Ma oggi le statistiche sono abbastanza incoraggianti, per esempio quanto emerge sulla trasmissione verticale. Per nostra soddisfazione, l’anno scorso (2015), nei centri DREAM della Comunità di Sant’Egidio non è nato nessun bambino HIV+, cioè tutte le donne gravide sieropositive hanno avuto bambini sieronegativi, grazie alle cure mediche per le donne incinte con HIV. Oggi è inconcepibile che un bambino nasca con HIV, perché il trattamento è disponibile.

Nel percorso della gravidanze, che difficoltà incontrano le donne sieropositive?

Spesso hanno paura di essere obbligate a rivelare ai partner il loro stato sierologico. Noi naturalmente diciamo loro che questo dipende da loro. Possono parlarne come no. La cosa più importante è che siano consapevoli del loro stato di salute.

C’è qualche rito che segue, qualcosa che compie religiosamente tutti i giorni?

Prego molto, e dedico la maggior parte del tempo restante al mio lavoro. Tutti i miei pazienti hanno il mio numero di cellulare, sono disponibile per loro 24 ore al giorno. Sanno che possono chiamarmi o mandarmi messaggi quando vogliono. Se sono all’estero parliamo su whatsapp.

E’ una donna di fede?

Si, da sempre, e lavoro con diverse congregazioni religiose: con le suore del Centro di Riabilitazione Psico-Sociale di Mahotas, aiuto nella formazione sul’HIV/AIDS al Don Bosco e nel collegio femminile di Katembe. Due volte l’anno vado alla Casa da Alegria, isitiuzione sociale delle suore di Madre Teresa di Calcutta.

Un episodio che le rimarrà sempre nella mente?

Nel 2006, all’Ospedale Generale di Machava, c’era una paziente di 17 anni che veniva sempre alla visita con la mamma, anche lei sieropositiva. Qualche giorno prima di Natale la ragazzina è venuta alla visita da sola. Aveva appena perso sua madre. Le infermiere la hanno messa per ultima della fila, in modo che io potessi dedicarle tutto il tempo necessario. Entrata nel mio studio le ho detto di prendere una delle bambole che avevo lì. Si è rifiutata. Poi si è avvicinata e mi ha detto che l’unica cosa che voleva era riavere sua madre. E’ stato scioccante! Piangeva e basta.

Lei ha molti pazienti, questo non le toglie la possibilità di stare con la sua famiglia?

No. Ho anche il mio tempo per stare con la mia famiglia, è lì che ricarico le energie per il lavoro.

Chi è Noorjehay Magid? Noorjehay Magid è nata a Maputo; è la maggiore di due fratelli; viene da una famiglia di origine e tradizione indiana. La dottoressa Noorjehay è una donna dal sorriso facile e spontaneo che la rende estremamente simpatica.

E’ cresciuta in una famiglia conservatrice il che fa di lei una donna dalle convinzioni forti. La componente religiosa la ha accompagnata sempre, tanto che si coinvolge facilmente, da subito, in atti di carità sociale. Dal 2007 partecipa annualmente agli incontri di preghiera per la pace realizzati dalla Comunità di Sant’Egidio in Europa.

Ha studiato medicina all’Università Eduardo Mondlane e si è laureata nel 1998.Ha iniziato la sua carriera di medico nel Sistema Sanitario Nazionale. dove presta servizio fino ad oggi. In parallelo lavora con la Comunità di Sant’Egidio dal 2001 e attualmente è il responsabile clinico del programma DREAM in Mozambico.

Testo originale http://www.noticiasmocambique.com/nao-basta-medico-preciso-humano/

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