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Caro occidente, non tradire il Global Fund
26
Mar
2009
26 - Mar - 2009



Paola Germano del progetto Dream della comunità di Sant’Egidio

«È stato un punto di svolta. Venir meno agli impegni vuol dire condannare migliaia e migliaia di malati»

Paola Germano, 49 anni, napoletana, delle dispute ideologiche non sa proprio che farsene. Dal 2001 è alla testa del progetto Dream, nato nell’ambito della Comunità di Sant’Egidio per affrontare l’emergenza Aids prima in Mozambico, ora in ben 10 Paesi africani. «Preservativo o non preservativo, quando ci si scontra per ideologie non si va da nessuna parte». Per la dottoressa Germano il primo approccio alla questione Aids era avvenuta tra le corsie del Lazzaro Spallanzani di Roma. Dal 2001 il suo raggio d’azione si è spostato tutto nel Continente nero. «Quell’anno sono andata in Mozambico per un primo corso di formazione. E posso dire dì essere stata "toccata" dall’Africa. Da allora questa è la mia vita».

L’acronimo Dream associa la lotta all’Aids con quella alla malnutrizione. Perché?
Perché se si parte dal malato come persona, si capisce che in Africa l’Aids è un problema connesso con tanti altri. Primo tra tutti la fame. Molti programmi erano inefficaci proprio per questo: ci si preoccupava di dare le medicine e poi í malati non avevano nulla da mangiare.

Quali risultati avete ottenuto con il lavoro di questi anni?
Attualmente seguiamo 65mila pazienti, una goccia nel mare dei 22 milioni di malati nell’Africa subsahariana. Oggi possiamo contare 7mila bambini nati sani da madre sieropositiva. Perché l’obiettivo principale è stato quello di intervenire sulle donne in gravidanza per far nascere una generazione sana, e rompere così il circolo vizioso. Ma il vero risultato di questi anni credo sia un altro.

Quale?
L’aver puntato a rendere protagonisti i malati stessi, che sono al centro della cura nel senso che molti lavorano nei centri per avvicinare gli altri malati.

L’altro tema è quello della gratuità delle cure. Come è possibile garantirle?
E’ una questione sia di equità che di efficacia, perché se non è così nessuno o quasi può permettersi le medicine. Quindi per ridurre il contagio bisogna che le cure siano gratis. In questi anni si sono fatti molti passi. All’inizio in Mozambico non potevamo neppure portare le medicine. Poi, dopo una trattativa con il governo, abbiamo abbattuto questa "frontiera". Oggi i medicinali vengono forniti dai governi che possono acquistarli grazie al Global Fund. Il costo dei progetti invece è a nostro carico. I donatori privati non si sono tirati indietro. Intesa Sanpaolo e Fondazione Cariplo sostengono il progetto Malawi, giunto al secondo triennio. Unicredit invece finanzia Dream in Mozambico. Poi ci sono migliaia di donatori piccoli e grandi intercettati dai membri della Comunità di Sant’Egidio.

Lei ha citato il Global Fund. Avete timori per gli Stati che potrebbero venir meno all’impegno?
Gli effetti li dobbiamo ancora vedere. Per ora si va avanti con í fondi degli anni passati. Ma bisogna essere consapevoli che il Global Fund è stata una risposta intelligente ed efficace che ha permesso a molti governi di comperare farmaci che non avrebbero mai potuto permettersi. Certo in Occidente si deve essere consapevoli che tirarsi indietro vuol dire condannare migliaia e migliaia di malati.

Che posto ha il preservativo nell’itinerario delle cure che lei ha tracciato?
Mi sembra che a volte si parli del preservativo come di uno strumento magico. Ma nella lotta all’Aids le soluzioni semplificate non portano a niente. Noi, ad esempio, curiamo molte donne nelle aree rurali: e lì per loro avere figli è una forma di garanzia sociale, di essere preferite rispetto alle altre donne. Distribuire o imporre il preservativo in quelle situazioni non serve. Serve invece creare una cultura diversa, senza la quale ogni prevenzione è destinata ad essere inefficace.

 


Giuseppe Frangi (Vita no Profit)

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