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Malawi, nell’Africa che rinasce dopo il dramma dell’Aids
14
Nov
2010
14 - Nov - 2010



REPORTAGE

È stato uno dei Paesi più duramente colpiti dal virus: intere generazioni falcidiate, l’agricoltura in ginocchio Ma oggi respira grazie a un progetto firmato Italia, che mette insieme salute, economia e sviluppo. E la speranza parte dalle donne incinte: ricevono farmaci che fermano la trasmissione al feto

dal nostro inviato PIETRO VERONESE


BALAKA (MALAWI) – Questa è una storia di amore, di sesso, di avidità, di morte. Ma è soprattutto una storia di vita: di come una nazione africana, incastonata nel profondo del continente che ha pagato all’Aids il più alto tributo di vittime – un’ecatombe di milioni di umani in trent’anni – , ha imparato a rinascere, sopravvivere, sperare e fare di nuovo progetti per l’avvenire. Fino a intravedere, come dice il dottor Darlington Thole nel suo ambulatorio a Balaka, l’avvento di una "Hiv-free generation", una nuova generazione liberata dal virus.

Zacharia Lija è una iena. Veramente di giorno è commerciante, tiene bottega in una traversa dell’affollato mercato di Lunzu. Ma nottetempo, a richiesta, si trasforma. Perché "iena"? Perché "è un animale che si muove sempre in modo obliquo, subdolo. Non attacca mai frontalmente". E lo fa di notte. "Tra i Chewa quello della iena è un ruolo tradizionale, c’è sempre stato, un tempo anche il capo-villaggio ne era informato, magari era proprio lui a venirti a cercare. Oggi non è più così". Sono le coppie che non riescono ad avere figli ad avvicinare discretamente Zacharia. Il suo compito è fare le veci del marito, fecondare la donna, consentirle la maternità. Questo è una "iena": un donatore, secondo i modi e i costumi di una società contadina africana. "Se la cosa va a buon fine, per me sono 5mila kwacha", circa 25 euro, conclude
il nostro uomo con un bagliore nelle pupille.
Zacharia lo ha fatto dodici volte. In quattro casi è nato un bambino. "So che con l’Aids adesso c’è un rischio, ma finora lo ho fatto lo stesso. Alla donna chiedo di sottoporsi al test, di dimostrare che non è sieropositiva. E naturalmente pretendo una tariffa più alta".

Non c’è società al mondo che più di quella africana metta al proprio centro la vita, nel suo senso più biologico: la fecondità, la riproduzione, la meraviglia della nascita e dello stare al mondo. Una società tanto pudica quanto sessualmente disinibita; tanto rispettosa dello spirito quanto carnale. Per questo l’Aids l’ha colpita così crudelmente: difendersi dalla malattia, apprezzarne il pericolo, affrontarla quando non si è riusciti a prevenirla, comporta uno sforzo radicale, una complessa operazione culturale, quasi una messa in discussione identitaria. E per combattere la pandemia non basta sommergere l’Africa di pillole, ammesso che ci siano abbastanza farmaci antiretrovirali per i 25 milioni e passa di sieropositivi. Oltre alla dimensione sanitaria, che ovviamente è fondamentale, c’è bisogno di formazione: diffondere il messaggio fin dentro alle capanne della gente più povera. E dare speranza agli ammalati, indicando concretamente che la vita continua. Aiutare i sopravvissuti ad avviare una piccola attività economica. Specializzare il personale sanitario. Allevare le decine di migliaia di bambini rimasti senza genitori. Educare i ragazzi, affinché crescano consapevoli della minaccia e non ripetano gli errori dei padri. Soltanto così si può sperarle di averla vinta.

Nel piccolo e povero Malawi, 14 milioni di persone di cui oltre 900mila sieropositivi, 70mila morti all’anno per la pandemia, un medico ogni 94mila abitanti (record mondiale), nove contadini ogni dieci, un dollaro al giorno di reddito per oltre la metà della popolazione, un progetto si sforza da cinque anni di combattere su tutti questi fronti. Legando la salute e lo sviluppo, i farmaci antiretrovirali e il microcredito tra le capanne; laboratori d’eccellenza per le analisi cliniche e porcilaie modello che fruttano insperati guadagni alle cooperative di villaggio; medici in camice bianco e boy scout che vanno di scuola in scuola predicando con teatrini e danze alle teenager: "Meglio studiare che sposarsi ragazzine". "Project Malawi" è un’alleanza che sembra dare ottimi frutti, portata in palmo di mano dal governo locale e premiata due anni fa a New York alla presenza del segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon. I donatori sono un grande istituto di credito e una fondazione bancaria: Intesa Sanpaolo e Fondazione Cariplo, al ritmo di tre milioni di euro all’anno. Il grosso di questo impegno va alla parte sanitaria, affidata alla Comunità di Sant’Egidio, che è stata chiamata a ripetere in Malawi le meraviglie ottenute dal suo programma Dream in altri Paesi africani, a cominciare dal Mozambico. La fascia di popolazione presa in cura sono le mamme incinte: il protocollo Dream riesce a inibire la trasmissione del virus dalla madre al nascituro, abbattendo in maniera sensazionale i tassi di sieropositività e contribuendo alla crescita della "Hiv-free generation" di cui parla con orgoglio il dottor Thole. Gli interventi sull’infanzia a rischio sono affidati alla ong Save the Children; i progetti di microsviluppo all’italiana Cisp; la formazione del personale medico alle Società italiane di pediatria e neonatologia. E gli scout chiudono il corteo con l’attività di sensibilizzazione e propaganda tra i ragazzi della loro età. La formula malawiana funziona, anche se si tratta di "uno dei Paesi più disastrati al mondo, dove secondo molti esperti ci eravamo dati un compito impossibile", ha detto a Repubblica il consigliere delegato di Intesa Sanpaolo Corrado Passera. E "quando nasce un bambino sano è una gran bella emozione".
Alice Becknadi ha quattro figli, è vedova e sieropositiva. È in cura con il protocollo Dream, non dimentica mai una compressa e nella sua capanna conduce una vita normale. Per la gente del villaggio è un testimonial della convivenza possibile con l’Hiv: il solo vederla in giro dimostra che il virus non significa morte sicura. Con il microcredito del villaggio Alice ha comprato fagioli rivendendoli in città e restituendo prestito e interessi, in tutto 13mila kwacha, nel giro di due mesi. Con l’utile che le è rimasto ha comprato un radiotelefono e un tavolino di plastica: "Qui l’elettricità non arriva ma la batteria dura una settimana. Telefonare costerà 20 kwacha al minuto, conto su una media di otto clienti al giorno".

Intorno ad Alice, lentamente, il verbo si diffonde. Nei riti d’iniziazione si insegna alle ragazze puberi come rispondere alle carezze degli uomini, ma anche l’importanza della monogamia. Lo stregone Seven Days, "esperto in rapide guarigioni", non pretende più di curare l’Aids con l’aloe vera (o almeno così giura). Fatima, Eznat, Violet, Mtisunge, Patricia, prostitute per i sabati allegri di periferia, tutte sieropositive, hanno sempre a portata di mano i condom insieme al cellulare. Peter e Miriam, 34 e 25 anni, contabile lui e volontaria di Dream lei, entrambi sieropositivi e pazzi d’amore, si sono sposati in agosto e fanno luminosi progetti di vita. E Grace, 19 anni, orfana sopravvissuta solo perché è una forza della natura, adesso in cura, mette da parte i soldi che guadagna con l’allevamento di polli e sogna di diventare infermiera. Loro sanno che l’Africa non morirà.
(15 novembre 2010) Tutti gli articoli di Mondo Solidale

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